Agalloch – “The Mantle” (2002)

Artist: Agalloch
Title: The Mantle
Label: The End Records
Year: 2002
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “A Celebration For The Death Of Man…”
2. “In The Shadow Of Our Pale Companion”
3. “Odal”
4. “I Am The Wooden Doors”
5. “The Lodge”
6. “You Were But A Ghost In My Arms”
7. “The Hawthorne Passage”
8. “…And The Great Cold Death Of The Earth”
9. “A Desolation Song”

Nella ricerca silenziosa di un Dio muto, il tentativo effimero di comprendere cosa questo possa essere anche a dispetto dell’uomo che ne ha dato più o meno tangibile forma ricevendola in cambio a sua volta; se persino lui possa essere caduto in rovina come il proprio figlio ed ogni suo sogno, come ogni speranza sul sentiero infinito della speculazione religiosa e sempre destinato alle braccia di quel pallido, freddo compagno spietato che da lontano ma senza tregua lo perseguita, che lo segue paziente e furtivo prima che venga il fatale momento di allungare la sua mano e rendere, così, tutto in apparenza estremamente vano, disponendolo e condannandolo al nulla disperato. Perché è forse in fondo vero che ogni possibilità di pensiero umana non può che fermarsi attirata ai cancelli della morte, quelli della decomposizione fisica che inquieta lo sprovvisto di orgoglio pagano da un luogo irresistibile ed obbrobrioso al contempo, e della fine che abitano di conseguenza nel profondo di ogni azione e riflessione del principe degli esseri viventi e finiti nella loro esistenza terrena.

Il logo della band

Ma immaginare di esprimere davvero tutto ciò è del resto un altro paio di maniche. Esprimere l’insprimibile, benché sia possibilmente pensabile, è compito dell’arte – e di chi ha capito che, creandola, si può superare quella fittizia barriera linguistica come quella insita in qualunque altro medium raggiungendo nel farlo qualcosa d’incredibilmente più alto ed altrimenti inafferrabile, altrimenti sempre fallibile. Gli Agalloch raggiungeranno la pienissima consapevolezza di un possibile traguardo simile dieci anni più tardi, nel 2012 di “Faustian Echoes”, esplicitando l’amore per la fonte prima che ha permesso loro di creare musica così fuori dagli schemi coevi prima dei propri coevi; ma nel 2002 di “The Mantle” pongono la prima reale base, se non stilistica quantomeno concettuale e mentale, paradigmatica se si preferisce, di quella che a sette anni dalla formazione è ancora una mera benché già grande supposizione. Innanzitutto, mai parlare di religione, di divinità e di esistenza: bensì scrivere musica che ne possa suggerire il quesito all’anima tramite le sue note e prima dei suoi poderosi testi, che possa esprimere quella tensione filosofica e quella speculazione infinita, e tutte le similitudini di elucubrazione e ricerca dei suoi membri senza che la parola prenda mai il posto nel trono dell’esposizione. L’amore condiviso per l’assurdo di Bergman, per Fernando Arrabal nel tramite di Jodorowsky, per Bela Tarr e la fotografia moderna del primo est Europa, per Kieslowski e Tarkovsky ne avrebbe al contrario insediato lo scranno semiotico, esprimendosi in note anche visivamente dedicate all’assenza dell’uomo nella sua presenza – alle sue creazioni tangibili, manufatti ed edifici in pietre e metalli utili sia a sopravvivergli che farlo sopravvivere all’eternità donandogliela in un certo qual modo, accostandolo da pari a quella natura per cui sembra non riuscire a non essere una specie di cancro autodistruttivo, così ossessionato dalla morte e dalla fine di sé stesso soltanto.

– Vem är du?
– Jag är Döden.

La band

Tutta la poetica incastonata in un simile e laconico scambio di battute si traduce per mano del secondo tentativo su full-length dei tre di Portland in quello che, molto sostanzialmente e senza alcun tentativo di provocazione, qualora denudato delle intenzioni, resta un disco di Neo-Folk elettrificato. Proprio qui, tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 che ne vedono la genesi, “The Mantle” si posiziona per una più appropriata comprensione e debita considerazione che superi ogni gusto e predilezione personale: la sua ora ingigantita di quasi dieci minuti aggiuntivi di materiale è infatti quella che incorona i suoi presumibilmente inconsapevoli e giovanissimi autori quali i primi -in assoluto- ad approcciare la materia Folk in un ambito sostanzialmente Metal non più dal suo lato popolare e tradizionale come esplorato nel nord del Vecchio Continente tra il 1994 e l’inizio del nuovo millennio, quanto piuttosto da quello più apocalittico, se vogliamo moderno nel suo tentato atavismo, del Neo-Folk sempre europeo ma di vicinissima alla recente memoria dei Sol Invictus e Death In June, alle più acustiche sperimentazioni britanniche in seno ai lavori novantiani di David Tibet e dei suoi Current 93.
Che si tratti dunque del Black Metal o del Doom in cui risiedono le innegabili radici stilistiche ed emozionali degli Agalloch fin dal demo “From Which Of This Oak…”, questi ultimi guardano sempre all’Europa qualunque cosa facciano; al contempo, osservando quel minimalismo, lo caricano tra il 1999 ed il 2002 di un massimalismo d’arrangiamento per la prima volta fatto di caldi e grandiosi arpeggi, contrappunti, armonie e tappeti di singole note ritmiche, tripudi di chitarre acustiche e classiche, assoli come climax e gonfi di un feeling che guarda totalmente fuori dal mondo Metal (si pensi non solo a quello ormai divenuto leggendario tra gli estimatori della “In The Shadow Of Our Pale Companion”, ma anche e soprattutto a quello custodito nel centro di “The Hawthorne Passage”), di riempimenti in quelle desolazioni ombrose che hanno sapore cinematografico e sperimentazioni assortite (tra i più disparati strumenti atipici ed oggetti ritualmente usati come tali), più un animismo americano che si sarebbe sviluppato e rivelato pienamente al mondo soltanto un decennio più tardi con il variegato panorama cascadiano (il quale, con ogni debita probabilità, trova proprio qui dei mentori spirituali dalla difficile discussione) diventando una vera e propria scuola per la posterità. La grazia e l’eleganza, la sofisticazione in generale degli arrangiamenti complementari tra loro del cuore Haughm e dei ventricoli Anderson e Walton, sulla base di composizioni quasi sempre ascendenti (non solo la strabiliante resa di “…And The Great Cold Death Of The Earth” arricchita di archi luttuosi e neoclassici come mai sentito, o il finale della già citata settima traccia, con i suoi ottoni vibranti – un precedente d’antologia), sono un qualcosa di quasi senza trascorsi e non per assurdo definibile avanguardistico in un disco che mantenga comunque la sua componente Metal abbastanza stretta come “The Mantle” -soprattutto nelle favorite, meno elaborate e più blackish “You Were But A Ghost In My Arms” e “I Am The Wooden Doors”– in qualche strano e a tratti incomprensibile modo riesce a fare.
E non è solo un caso legato al mero nome (peraltro nel 2002 ancora decisamente misconosciuto) della band in copertina che, pur rimanendo tale davvero relativamente, il secondo disco completo degli Agalloch resta infatti per il mondo innanzitutto il prodotto di una band di esploratori del mondo Metal, pur sempre ad esso legati a doppio filo: ma perché tutta la ben nota pesantezza del genere heavy per definizione ed eccellenza viene qui resa emotiva, declinata da groppo in gola quanto e come con ogni probabilità all’inizio degli anni 2000 non era ancora mai stato sperimentato nemmeno dal Doom più intransigente di Disembowelment, Thergothon, Unholy, Skepticism ed Evoken. Per assurdo è proprio il lutto maggiormente pesante ed esplicito di un più definito “Pale Folklore” a farsi discretamente da parte nel suo diretto successore, rendendosi invece pienamente disponibile con un balzo in quel “Ashes Against The Grain” della consacrazione, lasciando qui il posto ad una rassegnata atmosfera da flâneur dispersi tra le valli mentali di R.W. Emerson e Thoreau, in nove brani che solo in questo modo riescono a trasudare per la prima volta tutta la tensione letteraria (e anche accademica) di una band per infiniti versi colta come gli Agalloch: ricolma di una pletora di spunti d’approfondimento e riflessione sui temi più grandi che l’uomo possa provare a sondare.
Tra i primi due dischi è del resto il momento in cui il nucleo dei tre pone le basi prime e forse ultime di tutto un modus lirico di una nuova misantropia, meno nera e più spaventosamente grigia, più adulta se vogliamo e perfettamente riversata nei sussurri serpentini di chi osserva il mondo senza volerne far totalmente parte (quelli che per infiniti estimatori sarebbero diventati una sterile posa da replicare o citare) – di chi si sente dissimile al suo simile e lo dimostra in uno zibaldone di stili facente propria tutta la tensione dei ritmi marziali nel rullante e nella grancassa del Folk apocalittico e della composizione morriconiana, del Post-Punk più avanguardistico e dei paesaggi quasi-western dove s’inserisce il contrabbasso di Ty Brubaker (come accade in “The Lodge” e nell’ottavo pezzo) omaggiante i dispensatori di onirismo Rock per eccellenza, i Fields Of The Nephilim di cui è mutuata anche una certa cinematograficità in fatto di grandi vastità sonore, andando così a creare dei crescendo dal sapore tutto Post-Rock e dall’intensità aliena a qualunque collega: passaggi di luminescenze dal candore della neve, dal valore melodico ovattato e scintillante come disperso in questi infiniti manti di bianco ingrigito ricchi di riverbero e slanci sognanti che parlano la stessa lingua innaturale dei registi esistenzialisti, esploratori della relazione dell’uomo con Dio e della sua dolorosa mancanza come fosse musicata da un’orchestra formata da Amon Düül, Nest e Tenhi, Godspeed You! Black Emperor, Ulver ed Empyrium che flirtano col Metal degli Ancient Wisdom.

“The Mantle” è insomma dove, per la prima e nondimeno bizzarra volta, tutta la magniloquenza dello stilismo anche topico del Black Metal riceve in omaggio quello altrettanto grande ed atmosferico di due mondi fino a quel momento mai realmente collimativi come quelli del Post-Rock e del Neo-Folk nel tramite delle differenze rimtico-melodiche dei suoi autori che diventano qui squisitamente integrative. È quel disco che resta lontanissimo dall’essere, in verità e con buona pace di ogni fan della band, il migliore di un gruppo il quale farà estremamente meglio in futuro diventando senza più ritorno la creatura unica che il mondo non avrebbe più totalmente dimenticato, nemmeno a una decina d’anni scarsa dal suo travagliato scioglimento, e che ciononostante -al netto di essere una bestia lunga e strana persino per i suoi creatori in retrospettiva- scopre completamente in sé moltissimi dei germi che sarebbero fioriti più maturi nei successivi album: a partire dal 2006 integratisi così tanto più completi e sentiti da lasciare un disco dalle fattezze comunque incredibili come “The Mantle” quasi desiderante, come fosse ancora mancante di un qualcosa. Di una componente, forse, di un lato della band qui -non poteva essere altrimenti- ancora logicamente inesplorato.
In certe sue intuizioni non acustiche “The Mantle” resta infatti un album a tratti anche rudimentale, forse eccessivamente ambizioso nella sua natura di rodaggio per quasi tutti i versi che non siano la componente Neo-Folk anticipata da “Of Stone, Wind, And Pillor” (e mai più altrettanto esplorata dal gruppo in un successivo lavoro, se fatta eccezione per l’EP bianco del 2007). Eppure resta un precedente di valore gigantesco in un genere che, a questo punto dovrebbe andare da sé, mai aveva visto qualcosa di simile prima: mai aveva assistito, salvo durante i suoi più grandi big-bang stilistici, ad una lezione di anti-teoria musicale dove ogni regola è millimetricamente utilizzata per rompersi; la dimostrazione che, volendo citare proprio il professor Anderson in conclusione, ogni organizzazione di suono serve a comprendere le sue stesse infinite possibilità.

Matteo “Theo” Damiani

Precedente Craft - "Terror Propaganda" (2002) Successivo The Wicked – “...For Theirs Is The Flesh” (2002)